Si ridimensiona tutto: il tempo, lo spazio, le relazioni. Ogni dettaglio diventa visibile, ferocemente palpabile. Quello che, fino a quel momento, hai dato per scontato, diviene lapalissiano al tuo sguardo. Lo sguardo oltre le finestre diventa di ricerca, di un ritrovato senso. Tre giorni – ventiquattrore in tutto – in carcere, a osservare, parlare, scoprire, chiedere, riflettere: impossibile uscirne come prima. Tre giorni di totale immersione, un’immersione nella quale rimani anche tra un giorno e l’altro, quando torni a casa nell’attesa di rientrare la mattina successiva. E la sensazione inspiegabile, di mutamento e consapevolezza, che ti rimane addosso una volta che, terminati i tre giorni, analizzi ciò che è successo (dentro di te, ancor più che fuori); e in quel momento ti accorgi dell’inevitabilità del cambiamento.
Hai capito dove sei?
«Prendi la mia». Una mano si allunga verso di me, offrendomi una chiavetta, mentre aspettavo il mio turno al distributore automatico di caffè. Huan (nome di fantasia) sedeva sui gradini che dividevano il corridoio dalle postazioni di lavoro e nel mettermi a disposizione la sua chiavetta non si è alzato nonostante io fossi in piedi. Nessuna formalità: solo la naturalezza di chi vuole che tutti siano a proprio agio. Era con Antonio (nome di fantasia). Avevamo in comune – anche – l’età. Dopo quel piccolo momento mattiniero, ho parlato con loro tutti i giorni. Li cercavo nei frammenti di tempo e, alla fine del terzo giorno (quando la mia esperienza formativa si è conclusa) sono uscita dalla struttura con il senso di colpa per non aver salutato Antonio. Non c’era: «È stato male», mi ha spiegato Huan. Ho pensato banalmente avesse avuto qualche malore. Nessun malore: «Ieri sera Lazza (il famoso rapper, ndr) è stato qui in carcere per tenere un concerto. Dopo il concerto ha iniziato a stare male, perché sai, fai delle cose normali e poi ti ricordi… Siamo pur sempre in carcere, eh».
Che etichetta hai messo oggi?
Siamo pur sempre in carcere: te lo devi ricordare, tra le mura della casa di reclusione di Bollate. Dove entri chiedendoti cosa potrebbe aver fatto ogni persona che incontri nei vari spazi della struttura e ti dimentichi della domanda l’istante successivo. Dove impari che mettere un’etichetta è naturale, è un processo cerebrale inevitabile, ma dove impari anche che il problema non è l’etichetta bensì il giudizio che dai a essa: sarò in grado, ti chiedi, di andare oltre? Ma soprattutto: perché ho avvertito la necessità di superare queste barriere mentali? È innegabile: il pregiudizio ha il fascino del difensore, si presenta con uno scudo indistruttibile con il quale prometterà di proteggerti da tutto ciò di cui hai paura. Però con la sua presenza ti accorgi che si forma, in te, il grande vuoto della scoperta. E inizi a chiederti se ne valga la pena proteggersi così. E se sia davvero una protezione o una fuga – da ciò che il tuo animo vorrebbe capire e non gliene si dà la possibilità.
Nando (nome di fantasia) è uno di quei condannati nel reparto numero sette. Uno di quei reparti che, nelle carceri italiane, sono lontani dalle sezioni degli altri detenuti. Lo capirò solo alla fine che lui è un “numero sette” e sarà un lungo dialogo con me stessa quello che dovrò poi affrontare; Nando mi ha raccontato la sua esperienza, mi ha spiegato della sua voglia di redenzione, mi ha parlato dell’impegno che mette nelle sue attività in carcere. Le sue difficoltà non sono poi così diverse da quelle di chi vive fuori. Non mi sono chiesta quale fosse il suo reato. L’ho capito con i miei occhi, quando alla fine dei tre giorni, nel salutarlo, l’ho visto rientrare al suo reparto.
Ti sei chiesto perché?
Antonio, durante l’ennesimo caffè – che diventano poi scuse per poter dare da mangiare al bisogno umano di evolvere tramite l’altro -, mi ha detto che è riuscito a trovare “il motivo” per accettare la buona convivenza – libera, come solo al carcere di Bollate funziona – anche con chi ha commesso quei reati che non sono accettati nemmeno dallo stesso mondo della criminalità. Ha trovato il suo motivo in una persona: «Fosse per me, probabilmente farei un disastro. Ma non lo faccio per questa persona».
Antonio si è dato una ragione per riuscire a combattere i demoni che nella sua testa condannano e giudicano (e pensare che questo sia un paradosso è, a sua volta, una condanna e un giudizio). Antonio non ha la presunzione di dire che è cambiato, che è “guarito”: Antonio ha la maturità di dire che bisogna avere un perché per riuscire ad andare oltre quelle caratteristiche di sé stessi che, sebbene abbiamo verso di loro un amore inspiegabile, riconosciamo essere tossiche, pericolose, limitanti.
Antonio, dicevo, il giorno dopo il concerto è stato male. Quel concerto al quale Marco (nome di fantasia) ha invece potuto realizzare il suo sogno di cantare. La musica sarà la sua redenzione, dice; un desiderio che fa passare nei suoi occhi tristi un veloce lampo luminoso come quando è sera, sei in casa e, fuori, i fari di un’auto che passa veloce illuminano le mura del tuo appartamento per quella frazione di secondo. C’è bisogno di luce, soprattutto per chi, come Marco, non ha nemmeno vent’anni e vuole dimostrare a sé stesso di avere, anche lui, un perché. O come Gianni (nome di fantasia), che ogni giorno si impegna nel suo lavoro in carcere per dimostrarlo, invece, a sua madre. Che in lui aveva poca fiducia. Che non ci credeva che Gianni aveva iniziato a lavorare. E il suo perché, in sua madre, lo fa restare focalizzato lì, su quello che oggi sa di dover fare. Per sé stesso. Mi perdonerà mai? Mi perdonerò mai?
Come ti stai guardando ora?
Il carcere ti mette gli occhi addosso. Si tratta di uno sguardo che non ti levi più di dosso, simile a quello della tua mamma quando da bambino combinavi un guaio, oppure dicevi qualcosa che avresti dovuto tacere, quello sguardo che senza parole ti dice “dopo facciamo i conti”. Sono i conti che fai con te stesso, quelli davanti ai quali ti mette l’occhio del carcere. Da cui non puoi (più) fuggire. Che non puoi (più) ignorare. Il giro di boa al quale, una volta giunto, ammetti a te stesso di essere molto più simile a ciò che credevi così lontano da te, che forse ripudiavi, che temevi e che giudicavi. Il giro di boa al quale ti spogli di ogni armatura e rimani nudo davanti all’inerzia della tua evoluzione: ed è lì che decidi, di te stesso, cosa farne. Esattamente come un detenuto.
Il corso
DnaExperience è il nome del corso di formazione, della durata di tre giorni, ideato e condotto da Marcello Minuti (founder di AltoLato, un progetto nato per fornire un nuovo tipo di formazione): una delle esperienze che si possono fare attraverso questo percorso formativo è proprio all’interno del carcere, come quello di Bollate. “La vita d’uscita è dentro” è il claim di questo ciclo di incontri, dalla durata di tre giorni, che ha l’obiettivo di aiutare le persone a comprendere come realizzare pienamente il proprio sé.
Spesso si parla di carcere senza sapere cosa e come . Il carcere , quello di Bollate sembra che sia quasi un hotel in confronto a S. Vittore o altre case di reclusione ….Da Ufficiale mi capitò di tradurre in carcere un Alpino , Carcere di Peschiera del Garda, penso all’ epoca , 40 anni orsono, un girone infernale . Assassini , renitenti alla leva , tutto il campionario della delinquenza dell’ epoca. Ambiente durissimo .
L’ esperienza da te provata sarà sicuramente di aiuto per meglio comprendere cosa avviene dietro le sbarre…
Complimenti .